Quella di Franco Scaldati è una poesia che attira lo sguardo verso l’alto, che riflette sulle stelle, il sole, la luna, pur sapendo che il miglior punto di osservazione per guardare il cielo rimane comunque la terra. Anche per questo i Totò e Vicé messi in scena da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, inaugurando il prologo della stagione teatrale di SistemaGaribaldi alle Vecchie Segherie Mastrototaro, dialogano tenendo spesso il collo teso e gli occhi all’insù, come a voler scorgere qualcosa al di là delle macerie invisibili di un camposanto metafisico nel quale scompaiono e compaiono continuamente. Clochard che chiedono l’elemosina alle ombre dei defunti, si muovono nello spazio in cui sono precipitati, affollato da tutto ciò che non è visibile allo spettatore. 

Se Totò è il mare, Vicé è il cielo con le stelle. E viceversa. E se il mare, alcune volte, può assomigliare al cielo con le stelle è perché l’uno si specchia nell’altro in maniera talmente definitiva da assumerlo in sé. Quello di Totò e Vicé è un (ri)chiamarsi incessante. I due si cercano come se non fossero effettivamente vicini e quando si trovano sembrano sempre riunirsi dopo una lunghissima separazione. È un gioco di rimandi che si dissolve nell’aria, quindi nel buio, quando “lumi, lumini e cannili ‘un servinu chiù” e puoi gettarli “nna munnizza”, come suggeriva Lucio (altro personaggio del drammaturgo palermitano). Ma se Totò e Vicé sono prima di tutto anima (quindi luce) e poi corpo, allora sono loro a spegnersi nel momento in cui non servono più. Si gettano “nna munnizza”, quindi tornano a vivere nel momento in cui svaniscono.

Recuperare oggi quei “singoli emarginati” del teatro, come lo era Franco Scaldati, serve forse come rimedio all’assenza di una nuova scuola di scrittori, come già sosteneva Franco Quadri, che del poeta siciliano è sempre stato un estimatore, tanto da paragonalo per primo a Beckett. Vetrano e Randisi si approcciano quindi ai testi di Scaldati come si farebbe con i classici, la loro trasposizione si fonda sul rispetto e non altera i dialoghi originali, che rimangono anche in questo caso sempre e comunque non-dialoghi, fatti di domande che non prevedono risposta e di risposte che non accettano domande.

Già dai titoli delle opere di Scaldati è chiaro che l’identità dei personaggi è data dal loro nome. Totò e Vicé si chiamano per nome e solo così esistono. Si domandano se siano umani o animali, flora o fauna (“il fiore è confuso, non sa se è farfalla”), fatti di mollica di pane o carne, ma il divenire che produce indeterminazione e trasmutazione (le lacrime in marmo, il sangue in vermi) si definisce e diviene reversibile nel momento in cui si afferma l’esistenza attraverso il proprio nome. Eppure anche questa momentanea riappropriazione di sé non può resistere alla regressione nel primordio, alla conclusiva fusione in una cosmogonia mai fissabile, per la quale la luna scende sulla terra e gli occhi degli uomini diventano le stelle. Se la voce è suono, la parola è realtà. Le cose accadono solo nel momento in cui le si dice e finiscono di accadere nel momento in cui si smette di parlarne. 

La tumultuosità tettonica del dialetto di Scaldati, propria di quella “umanità del sottosuolo” che parlava attraverso i rumori di ciò che è sotto terra, è adesso smussata da un siciliano dolce che invece fa emergere il candore dei due personaggi. Ma come i Totò e Vicé di Scaldati, anche quelli di Vetrano e Randisi, prima “fantasmi” in grado di attraversare il muro tra la tradizione pirandelliana e il contemporaneo, adesso sono angeli, trattenuti al suolo dalla pesantezza del loro ventre. La trasformazione della lingua poetica non è un “tradimento”, bensì un processo che lo stesso Scaldati aveva cominciato negli ultimi anni della sua carriera come radicale accettazione della scomparsa di un mondo. Lui voleva essere la “coscienza critica” del teatro, la spina nel fianco della cultura codificata, perciò si poneva continuamente il problema del “perché fare teatro, perché esserci” ma soprattutto “per chi farlo”, avendo sempre in mente il pubblico e modificando costantemente le sue opere per adattarle al contesto in cui queste venivano messe in scena. Il teatro per qualcuno e non il teatro per se stessi (e per se stesso).

Scaldati affidava alla voce di Francesco Tirone, ciclista palermitano che veniva rimproverato dalla moglie per il fatto di arrivare sempre ultimo, il suo pensiero: “La bellezza è degli sconfitti, il futuro non è dei vincitori, è di chi ha la capacità di vivere. E chi ha la capacità di vivere, di essere totalmente se stesso, è inevitabilmente sconfitto”. Alla fine di tutto, ci ricorderemo degli sconfitti. Come ci ricordiamo oggi di Franco Scaldati, carneade siciliano che in quarant’anni di teatro non ha mai trovato spazio nella sua Palermo. Lui che “resuscitava i morti per parlare con loro” è stato dimenticato da chi per anni ha amministrato il capoluogo siciliano. Grigi funzionari che solo davanti al feretro si sono spesi in un mea culpa tardivo, immortalato dallo sguardo spietato ed impietoso di Franco Maresco nel suo documentario del 2015. Il titolo era perentorio: Gli uomini di questa città io non li conosco. A Scaldati, uno come Maresco, che didascalico non lo è mai stato, dedicò un “film di servizio”, consapevole della necessità di far conoscere le sue opere (molte delle quali ancora inedite) a chi non ne aveva mai sentito parlare. E se i personaggi di Scaldati continuano ad esistere sul palco è anche grazie a lui e ad attori/autori come Vetrano e Randisi.