“Caro Sindaco, sono tornata a casa da poco, è stato un altro turno duro. Sono stanca ma non riesco a dormire. Mi capita spesso. Perché anche fuori dal reparto non è facile staccare mentalmente. E quando si è a casa riaffiorano i flash della giornata lavorativa, i ricordi, tanti, di questo lungo periodo in trincea. Le ‘gioie’ e anche i dolori, le ‘vittorie’ e le ‘sconfitte’, perché non sempre riusciamo in tutto ciò che pur desidereremmo profondamente”. Così comincia la lettera di un’infermiera dell’ospedale di Bisceglie indirizzata al sindaco Angarano, che ha deciso di pubblicarla su Facebook a poche ore dall’entrata in vigore della zona rossa per le festività natalizie. 

“Ho deciso di condividere con lei, Sindaco, attraverso queste righe che scrivo di getto, quello che provo intimamente, come tanti miei colleghi. A volte, nei momenti di sconforto, che le assicuro non mancano, penso che chi continua a fregarsene della pandemia dovrebbe vedere cosa succede nel nostro reparto. Per toccare con mano l’enorme sofferenza che questo nemico invisibile può provocare. Nei pazienti e nelle famiglie. E in tutti noi, perché il nostro ruolo ci impone di essere sempre razionali, di infondere fiducia e coraggio, ma quello che proviamo davvero lo portiamo dentro e spesso resta parte di noi.

Nel nostro reparto abbiamo a che fare con pazienti intubati, sedati, con la maschera C-PAP, la tracheotomia. Quando queste persone entrano in reparto leggi nei loro occhi la paura, lo sguardo chiede conforto e aiuto. Le assicuro, non è facile. Anche perché di fronte a loro, noi siamo bardati e questo, per chi è cosciente, certo non facilita. Ti possono guardare solo gli occhi e sono certa che li riconoscerebbero ovunque. Ti chiedono se ce la faranno, se rivedranno mai i loro figli e i loro nipoti. Chi non vive queste situazioni può solo immaginarle”.

“Ma io vorrei che arrivassero a tutti”, continua l’infermiera. “Raccontare degli Spritz che ci eravamo promessi con alcuni pazienti, per farci coraggio, e che non faremo mai. Di un paziente che mi aveva detto che alla sua dimissione mi avrebbe invitato al ristorante, con tenerezza. Quando suo figlio è venuto a ritirare la sua roba, non ce l’ho fatta e le confesso che ho pianto. Perché dopo un lungo periodo in corsia si era instaurato un legame di affetto. Questa è la realtà, al fronte. 

Ma le voglio raccontare anche di cosa si prova quando un paziente guarisce e viene dimesso: è il regalo (visto che siamo a pochi giorni dal Natale) più grande che si possa ricevere, ti infonde una positività immensa che ti da la forza per andare avanti. La forza di avere sempre il sorriso anche quando si soffre dentro. La forza di fare il nostro lavoro al meglio, con lucidità, competenza, professionalità, tempra, passione. Restando sempre umani, che è una componente fondamentale”.

“Continuerò, come i miei colleghi, a scrivere il mio nome sulla tuta, a volte anche una battuta per strappare un sorriso o un disegno per una momentanea evasione. Amo il mio lavoro, una vocazione che sento da quando ero studente. E continuerò a dare tutta me stessa quando indosso il camice, pardon, la tuta. Spesso in questo periodo ho sentito la metafora romantica che accosta gli operatori sanitari a degli eroi. Credo che siamo semplicemente uomini e donne che cerchiamo di svolgere al meglio la nostra missione lavorativa. E mi piacerebbe che tutti ci aiutassero con comportamenti responsabili. Vede, sarà la stanchezza del momento, ma sono preoccupata per quello che potrebbe succedere se sottovaluteremo l’emergenza sanitaria in queste festività. Se esiste un modo concreto per aiutarci, starci accanto e mostrarci gratitudine, è indossare la mascherina, evitare gli assembramenti e comportarsi con coscienza. Se volessimo proprio ragionare sul paragone degli eroi, parafrasando David Bowie e estendendo il senso di una delle sue canzoni più belle. Tutti possiamo essere eroi, anche solo per un giorno”. Così conclude la lettera.