Il Riccardo 3 (non terzo) di Enzo Vetrano e Stefano Randisi, tornati a Bisceglie dopo essere stati angeli appesantiti dal ventre in Totò e Vicé di Franco Scaldati, è un’opera consapevole di se stessa. Il testo di Francesco Niccolini rende edotti i propri personaggi della loro condizione di attori tragici e afferma in maniera chiara la “schizofrenia” come fondamento della professione dell’attore (per ricordare Gassman). Riccardo è redivivo (come sottolinea immediatamente il tema di Sakamoto e Alva Noto) ed “eccezione”, in termini freudiani, considerandosi in diritto di essere risparmiato da ulteriori pretese dal momento che ha già sofferto un numero sufficiente di privazioni. Rifiuta quindi, continuando nella psicanalisi, di accettare la frustrazione del desiderio in nome del principio di realtà.

Quando le luci illuminano il palcoscenico, tutto è già avvenuto. I teschi sono già lì, chiusi a chiave in un armadietto. La scia di cadaveri è alle spalle. Non c’è più nulla da mettere in scena. Riccardo, già “morte in terra”, sulla sedia a rotelle in una Torre di Londra che potrebbe essere una clinica svizzera o un vecchio ospedale psichiatrico giudiziario, si risveglia da qualcosa che è già successo, che ha già vissuto. Lo chiamano Riccardo ma potrebbe essere chiunque: l’efferato omicida Jean Claude Romand, quello de L’avversario di Emmanuel Carrère, scampato all’incendio della sua abitazione e quindi costretto a fare i conti con il suo stesso orrore, oppure, più semplicemente, un generico impostore.

Dopo aver causato la morte, Riccardo la chiede per sé, vittima e complice di Randisi e Giovanni Moschella, allo stesso tempo premurosi infermieri e servi di scena (come già in Totò e Vicé, anche qui è il nome a definirli, e i numerosi personaggi esistono solo se c’è qualcuno che li chiama per nome). Il sovrano chiede la liberazione dal proprio corpo, che è il corpo martoriato di tutta l’Inghilterra. Deforme e “non-finito”, come lui stesso si definisce, chiama a gran voce la propria fine. Così, quel Riccardo III da sempre considerato archetipo primordiale della malvagità umana, diviene adesso il tramite per rivendicare il diritto universale alla fine. L’eutanasia per congedare in maniera serena e indolore un uomo malato, prima ancora che malvagio.

La corona è una debolezza. Nel momento in cui la si posa sul capo, anche il più astuto diviene vittima delle sue stesse paure. Dopo l’incoronazione, i rapporti di forza sulla scena si ribaltano e Riccardo finisce per essere sopraffatto da quelli che fino a poco prima erano i suoi servi. Il personaggio shakespeariano, togliendosi la pelliccia, si spoglia (letteralmente) del suo rigore filologico nel corso della narrazione. La corona è incandescente, brucia e lascia sul palco la cenere del mito. Come a voler rovesciare il paradigma cinematografico di Roger Corman, che aveva messo Vincent Price nei panni di Riccardo, è stavolta l’orrore del mito ad essere sconfitto dall’orrore della realtà e non viceversa.