Descrivere in poche battute il saggio di Robert Castel, L’insicurezza sociale, non rende giustizia al testo stesso. Infatti, la questione che pone Castel non è solo una questione sociologica ma, soprattutto filosofica. Il versante su cui affronta la questione Robert Castel è quello sociologico. La nostra epoca si caratterizza per un costante incentivo alla sicurezza. Soprattutto dopo l’11 settembre del 2001, l’emergenza sicurezza è entrata in ogni ambiente della nostra esistenza, dagli aeroporti ai sistemi d’allarme. Ogni anno vengono prodotte tecnologie che rendono più sicura la nostra vita. Tuttavia, la sicurezza che cerchiamo non è semplicemente quella contro un ipotetico nemico, ma una sicurezza sociale. Su questo punto, Castel differenzia una protezione civile da una protezione sociale.

Si possono distinguere due tipi di protezioni. Le protezioni civili garantiscono le libertà fondamentali e assicurano la sicurezza dei beni e delle persone nell’ambito di uno Stato di diritto. Le protezioni sociali “coprono” contro i principali rischi che sono in grado di provocare un degrado della condizione degli individui: rischi come la malattia, l’infortunio, la mancanza di denaro durante la vecchiaia, gli imprevisti dell’esistenza, che possono sfociare, al limite, nel declassamento sociale.[1]

Il nostro bisogno di sicurezza, quindi, non è solo legato a quello dei sistemi di allarme, ma anche alla sicurezza nella propria vita, sia per quanto riguarda i diritti acquisiti sia per la propria posizione sociale. Se il quadro è così chiaro, allora, la nostra è una società che garantisce le più alte forme di sicurezza. Eppure, ci rendiamo conto che questa sicurezza non ci basta, che la nostra esistenza continua ancora a vacillare nonostante la società ci offra tutte le sue sicurezze attraverso le leggi o le forze dell’ordine. La domanda è, dunque: cosa ci rende ancora insicuri?

Anzitutto ci occorre dire che la domanda che poniamo non è banale, sia perché garantire la propria sicurezza è indispensabile per tutte le altre attività vitali, sia perché il tema della sicurezza tocca una parte di noi che non è mai completamente razionalizzabile. Si questo ultimo tema ci occorre riconoscere come la maggior parte dei discorsi, oggi, riguardino proprio la necessità di una maggiore sicurezza perché, fondamentalmente, l’insicurezza è un ottimo terreno per l’esercizio del potere. In altre parole, più cerchiamo sicurezza, più ci affidiamo a chi ci può dare sicurezza. E, inoltre, più cerchiamo sicurezza, più proiettiamo la colpa delle nostre insicurezze sulle classi sociali più basse, su chi vive ai margini della società o, meglio, ancora su chi è fuori dalla nostra comunità (gli extra-comunitari, appunto).

Castel rileva come l’insicurezza sia legata ad una società che spinge sempre più verso l’individualizzazione, più che verso la collettivizzazione. Insomma, ciò che ci rende insicuri sono tutti quei meccanismi sociali che spingono affinché avanzi il nostro ‘io’, più che il ‘noi’. E questo avviene in tutti i settori, dall’economia alla politica, smembrando così il tessuto sociale in una serie di pezzi che corrispondono alla singolarità delle persone, alla cui singolarità corrisponde tutta una serie di servizi che la società si limita ad offrire. L’insicurezza, quindi, nasce dalla mancanza di fiducia nell’altro, il quale non è visto più come un’occasione di confronto ma come un potenziale nemico. E, se l’altro è il nemico, io posso utilizzare tutte le mia possibilità per annientarlo, per far sì che non mi possa attaccare. Di conseguenza, mi affido a quelle istituzioni che mi possano garantire sicurezza. Fino a scambiare il governo con la politica, dove il governo è un mezzo per garantirmi una vita dignitosa, mentre la politica è il riconoscersi in una collettività, dove gli altri mi permettono di vivere e di non morire.

[1] R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004, p. 2.

Rubrica a cura di Matteo Losapio e Dario Gurashi