Per chi vuole iniziare ad interessarsi di politica, in una chiave autenticamente filosofica, una delle opere più famose è, senza dubbio, Politica per un figlio, di Fernando Savater. Caratterizzato da uno stile semplice e discorsivo, nonché da uno sguardo illuminante sulle regole basilari del vivere insieme, il libro è la lettura di un padre con il figlio dedicata ad analizzare le motivazioni della politica. L’assioma da cui partire, per Savater, è la negazione dell’indifferenza.

Il primo elemento con cui ci troviamo a fare i conti è l’indifferenza politica. Dove  “indifferenza” non è semplicemente il non schierarsi con un partito o il non impegnarsi attivamente in politica. La questione dell’indifferenza è molto più ampia. A ben vedere, infatti, indifferenza significa subire la politica e le scelte politiche.

Tuttavia, l’indifferenza politica attraversa anche la dialettica fra l’appartenenza politica e la partecipazione politica. Nel suo libro Savater opera una distinzione [importante] fra l’appartenere e il partecipare ad un gruppo.

Quando si appartiene a un gruppo, ciò che conta è essere del gruppo, sentirsi protetto e identificarsi con esso; nella partecipazione l’importante sono gli obiettivi che vogliamo raggiungere attraverso l’aggregazione al gruppo: se non li raggiungiamo lo abbandoniamo.[1]

Se l’appartenenza implica il contesto politico in cui viviamo, la partecipazione indica, invece la volontà politica con cui agiamo. Così, appartenenza e partecipazione si configurano come due poli da mantenere sempre in tensione e di cui non possiamo mai fare a meno. Infatti, se conserviamo l’appartenenza eliminando la partecipazione, rischiamo di precipitare in tutti quei fenomeni di nazionalismo in cui riceviamo, passivamente dal gruppo di appartenenza una nostra identità e, insieme ad essa, i criteri di giudizio sulla società e sugli altri. Ciò comporta la volontà di distinguere sempre chiaramente i buon dai cattivi, identificando però i buoni sempre in noi stessi e i cattivi sempre negli altri.

Se eliminiamo l’appartenenza in favore della partecipazione, cadiamo in un volontarismo che proietta sempre altrove l’impegno politico non occupandosi del proprio territorio, della città in cui vive. A tal punto da non riuscire a inquadrare altri problemi che non siano quelli materialmente distanti da noi.

Nella tensione fra partecipazione e appartenenza, allora, ritroviamo quell’impegno politico che significa, semplicemente, vivere con gli altri. In questo riconoscere politicamente la nostra tensione fra appartenenza e partecipazione, possiamo individuare la nostra libertà nel mantenere sempre una distanza critica dalla nostra appartenenza e nello scegliere ragionevolmente le forme e i modi della nostra partecipazione. Proprio in questa tensione si costruisce, nell’ottica di Savater, una politica intesa come libertà, una politica che non ci sottomette all’egoismo individuale, ma che piuttosto ci rende capaci di guardare al di là di noi stessi, di oltrepassare il recinto dell’indifferenza.

[1]F. Savater, Politica per un figlio, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 59.