Il giorno di tutti i Santi (1° novembre), noto anche come Ognissanti, e il giorno dei morti (2 novembre) rappresentano da molti secoli un punto fermo nella cultura popolare. Sebbene vicine, le due feste in realtà rispondono, all’origine, a due tradizioni diverse. I santi, o meglio i martiri, incominciarono ad essere onorati dai cristiani a partire dal IV secolo dopo Cristo. La commemorazione dei defunti, invece, era un rito già esistente tra i pagani che poi per consuetudine è stato inglobato anche dalla religione cristiana, probabilmente grazie all’operato dei monaci cluniacensi.

Entrambe le festività sono ricche di tradizioni e simboli che animano e rendono ancor di più curioso il loro svolgimento. Tra le diverse consuetudini emerge quella di recarsi, soprattutto il giorno dei defunti, al cimitero al fine di rendere 01omaggio ai propri cari. Una antica credenza popolare vuole che i morti, nella notte del 2 novembre, vadano in processione dalla chiesa di Santa Margherita a quella del Purgatorio, luoghi di culto chiusi oggi al pubblico. E infine la leggenda sui morti, benefattori delle calze per i bambini, quest’ultima una tradizione antica che purtroppo si è dovuta adeguare anche ai gusti e alle tendenze contemporanee. Per quanto possa sembrare banale, questa usanza ha un valore intrinseco poiché permette ai piccini, destinatari del dono, di sconfiggere la paura che hanno nei confronti dei morti e instaurare con loro un legame. I defunti sono entità benigne ecco perché portano le calze piene di dolciumi, in dialetto l’èneme de le mòurte, ai più piccoli. La tradizione, però, subisce variazioni e infatti era assai diversa da quella attuale. Anzitutto, tra la notte dell’1 e il 2 novembre, si apparecchiava la tavola, questo perché dopo la sopracitata processione, i defunti tornavano alle dimore dei propri cari per potersi saziare con quello che la povera e contadina dispensa biscegliese poteva offrire: pane, formaggio, vino, melograno e altri alimenti. I morti, così, per ricambiare lasciavano le calze molto spesso di lana o di cotone, appese al camino e piene di frutta secca, carrube, mele cotogne, noci, fichi secchi, melograni, uova e per chi si fosse comportato male anche di carbone, quello vero e non zuccherato. I morti, secondo la tradizione, rubavano prima dai pasticceri o fruttivendoli questi alimenti e po li riponevano nelle calze. Il binomio cibo-defunto, in realtà, affonda le proprie radici nell’antichità, addirittura nel periodo egizio. Solitamente i faraoni o i nobili venivano seppelliti con cibo o oggetti affinché si potessero saziare qualora necessario.

Al giorno d’oggi la tradizione della calza resiste ma in maniera differente. Sono anzitutto i bambini a scegliere che calze comperare e soprattutto cosa metterci dentro, il mistero del defunto che portava il dono è stato ormai sfatato dall’eccessivo realismo odierno. Sempre in tema di alimenti, spicca anche la colva, in dialetto la còlve, vale a dire grano cotto condito con melograno, cannella, chiodi di garofano, mandorle, cioccolato e infine il tutto amalgamato con vin cotto. Questo “dessert”, preparato ancora in alcune città pugliesi per la sua bontà, trova un somigliante anche in Grecia, il “Koliva”, un dolce preparato sempre in questo periodo e volto a commemorare i cari defunti. A ciò va aggiunto che il termine colva deriva, probabilmente, dal bizantino “Kolba” o dal greco moderno “Kolliba”, quindi l’origine di questo dolce potrebbe essere ricercata anche nei territori della regione ellenica. Tralasciando la sua origine, questo piatto conserva un suo significato, infatti il grano è da sempre emblema di fertilità e di vita che si contrappone all’atmosfera di morte che in quei giorni si viene a creare. Ricorda anche la volontà dei cristiani, durante la Quaresima, di nutrirsi esclusivamente di grano bollito al fine di non cadere nel peccato.