Quello di Fabiana Iacozzilli non è solo teatro di figura, ma spazio di sedimentazione per scorie mnesiche, esperienza tattile che veicola allo spettatore stimoli prima di tutto epidermici/nervosi e solo in secondo luogo visivi. È un teatro che agisce sui recettori termici del sottocutaneo, sui nocicettori che trasmettono la sensazione dolorosa di un pizzicotto sugli zigomi o di un taglio provocato dai pezzi di vetro sotto ai piedi. La Classe, che ha inaugurato alle Vecchie Segherie Mastrototaro il prologo “Maestri e Margherite” della stagione teatrale biscegliese, è uno spettacolo “cinematografico”, come spesso e banalmente si definiscono quelli del teatro di figura, ma nel senso spiegato da Enrico Ghezzi. D’altronde il “docu-puppets” della Iacozzilli, già dall’affermazione di voler essere documentario ancora prima che documento, si pone nella dimensione del cinema, gioco di “frammentisti” che, proprio reggendosi sulla sua fragilità, aspira a sintetizzare la totalità della visione (la cui unità di misura è, per l’appunto, il frammento). 

Le marionette della Iacozzilli sono doppiamente manipolate: dagli attori che le fanno muovere (e le tengono ferme) e da tutti gli agenti esterni a cui vengono esposte (vento, fumo, fuoco). Simulacri della propria rimozione, i pupazzi de La Classe si “materializzano” nel momento in cui vengono maneggiati. Come fossero opere di Anselm Kiefer, il primo a considerare la definizione di “materialismo storico” di Engels nel suo significato letterale e non sociale, quindi trasformando in materia la storia (collettiva e personale), le marionette comunicano le proprie paure e le proprie aspirazioni allo spettatore attraverso i materiali che le compongono. Attraverso il rumore che questi fanno quando entrano in contatto tra loro, si toccano e si sfregano. E così anche i suoni, al pari dei ricordi, possono essere immediatamente discernibili ed isolabili dal resto, oppure confondersi in una cacofonia di fischi e schianti, farsi “muro” (del suono) impenetrabile. I personaggi della Iacozzilli non si caricano il passato sulle spalle come facevano quelli di Kantor, ma vengono progressivamente “deteriorati” da esso.

La Classe è uno spettacolo attraversato da due diverse (e opposte) tensioni: quella iconoclasta (che demolisce per abitare uno spazio vuoto) e quella che invece tende ad accumulare in scena oggetti del passato a cui aggrapparsi per sopravvivere al buio della memoria. Annichilimento e nullificazione, poi riempimento e occupazione. È uno spettacolo che non si pone il solo obiettivo di ricordare, ma quello di risanare e (eventualmente) progredire: cauterizzazione teatrale che si compie con l’entrata in scena della stessa Iacozzilli. Ma anche le sue premure riparano dal freddo, non dal vento. “Solo le persone sane e senza dolore possono vivere rivolte verso il futuro. Le altre sono lì, a mezza strada, senza certezze e senza convinzioni”, scriveva Pasolini. Così gli studenti de La Classe, ogni volta che provano a guardare davanti a loro, “rivolgendosi verso il futuro”, trovano sempre una luce che li acceca. Proprio come in alcune opere teatrali di Pier Paolo Pasolini, anche qui emerge il “sadomasochismo del potere” nel momento in cui lo si guarda a distanza ravvicinata, ascoltandone i respiri affannosi, i gemiti e i sussulti. Il passato come “abuso” (subito, come nel caso de La Classe, o perpetrato, come nel Pasolini di Orgia) che riemerge.